27 aprile 2024
Aggiornato 06:30
Il mago Flip

Storia del magamondo che fa sorridere i bimbi della Siria

La vicenda di un ragazzo che dal Friuli, sua terra d'origine, viaggia nel mondo per portare un pizzico di allegria fra chi vive nella sofferenza

UDINE - «Erano cinque anni che le mie figlie non ridevano. Cinque anni che non sentivo il suono delle loro risate. Grazie». È quello un padre siriano, ormai costretto a vivere un campo profughi al confine con la sua terra, ha detto a Mattia, il magamondo (così come si fa chiamare). Questa è una frase che gela. Una di quelle frasi che non solo non ti aspetti, ma è una di quelle cose che non dovrebbero essere possibili. Una frase che come ha detto il mago Flip (sì, perché Mattia è un mago nella vita) «È impagabile». «Ho sempre pensato che ognuno nasce con uno scopo, - spiega - che è quello di lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato, ognuno nel suo particolare e unico modo. Io ho trovato il mio facendo meravigliare e ridere le persone. La magia per me è un mezzo: come il pittore esprime sé stesso e le sue emozioni attraverso la tela, il mago usa la magia come mezzo per stupire, lasciare un messaggio, un ricordo, un'emozione. Mi sono avvicinato a questo realtà circa 10 anni fa, - rammenta - ed è stato subito amore. Ho trascorso questo tempo in giro per l'Italia e per il mondo praticando, perfezionando e contaminando la magia con tutto quello che amo fare».

Portare il sorriso fra chi scappa dalla guerra
Fra i suoi molti viaggi per portare il sorriso ai bambini e non solo, anche cinque tappe all’interno dei campi che ospitano i profughi in fuga dalla Siria (o di orfanotrofi, ospedali, sempre rigorosamente con l’appoggio di Ong locali e di associazioni con collaborano con l’Onu). «Prima di allora avevo fatto molte trasferte in Paesi poveri» viaggi che senza dubbio l’hanno colpito e segnato, viaggi che lo hanno arricchito ma, «la guerra è un’altra cosa. Tira fuori il peggio dalle persone. Io ho visto bambini che sono nati nella guerra, - racconta - non hanno visto altro. E quindi l’unica realtà che conoscono è quella, non sono mai stati bambini». E poi ci sono quelli che hanno visto anche quello che c’era prima, che hanno perso tutto, hanno perso persone care e quindi, anche il sorriso. Nei campi profughi quindi sono fuori dal proprio Paese, dalla distruzione totale, ma sono come in un limbo: «non possono tornare in Siria perché c’è la guerra ma nemmeno andare altrove. Sono bloccati». E la situazione, non può che essere complicata da gestire, da accettare, da vivere. «C’è una città a confine con la Turchia, che si chiama Kilis, dove prima della guerra vivevano 50 mila persone, ora ce ne sono 150 mila, 100 mila sono solo profughi e vivono nel medesimo spazio in cui prima abitava la sola popolazione locale. Con tutto quello che ne consegue».

Un’impronta
Ma quella di Mattia è senza dubbio una scelta audace, lui spiega come «sono sempre stato convinto che i bambini sono come il cemento, come si dice. Tutto quello che lascia un’impronta dentro di loro, poi rimane. Ogni volta che vedevo alcuni filmati che raccontavano la situazione in Siria, vedevo gli adulti arrabbiati, i bambini, invece, erano tristi. Ho quindi pensato che questi piccoli, da adulti faranno le stesse cose che vedono oggi. Quindi anche con un po’ di presunzione (perché bisogna dire anche quello), ho pensato di poter andare là e non dico cambiare le cose e di dare il mio piccolo contributo». Un contributo che, come lui stesso ha detto, è piccolo, si rispecchia in quei sorrisi carichi di emozione. Ma quello stesso apporto si è talvolta spinto anche oltre, come nel caso di una bimba, anche lei profuga siriana assieme alla mamma: «Abbiamo scoperto che aveva un tumore al rene, le era stato diagnosticato quando ancora era in Siria, ma per la sua famiglia non era stato possibile curarlo, non avevano i mezzi. Noi (lui e chi come lui si occupa di questo tipo di volontariato e che era con lui quell’occasione ndr) siamo tornati in Italia, abbiamo fatto alcuni spettacoli per raccogliere i soldi e poi abbiamo messo tutto insieme e siamo tornati là». Oggi la bimba sta bene. 'Mi ricorderò sempre – rammenta - che quando è guarita, la madre mi ha detto una cosa molto bella: «nella nostra religione non chiediamo ‘Signore dammi questo’, ma chiediamo ‘Signore dammi quello di cui ho bisogno in questo momento nella mia vita’ e tu sei stato la risposta a questa preghiera. Perché io volevo solo che mia figlia guarisse'».

Cosa fare
Spontaneo quindi domandarsi cosa poter fare da qui, quale può essere il piccolo contributo di tutti. «Se uno vuole dare una mano sono moltissime le associazioni che portano aiuti», detto questo, però, «forse basta anche solo iniziare a cambiare l’atteggiamento quotidiano verso il mondo esterno, verso gli altri». E proprio in questa direzione si è svolta il 27 dicembre, a Udine, come già in altre città d'Italia e del mondo, una manifestazione (Udine For Syria - Stop The War) per «testimoniare - come si legge sull'evento creato sul Facebook - che l'indifferenza e il silenzio verso le stragi in Siria sono le peggiori armi di distruzione di massa esistenti. Per ribadire che il primo e fondamentale diritto internazionale è la sicurezza delle popolazioni civili in ogni contesto e l'istituzione di corridoi umanitari che ne garantiscano l'incolumità in caso di conflitto. Per ripetere per l'ennesima volta che ogni guerra di oppressione contro la libertà e i diritti di un popolo è un dazio che pagheranno anche tutti gli altri popoli, in termini di libertà e diritti». Udine era gremita e illuminata da tante, semplici, ma significative, candele.